Se vogliamo è sempre la stessa storia: ogni qualvolta succede qualche tragedia che ha, in qualche modo, a che fare con la tecnologia, parte la caccia alle streghe. E guarda caso spesso la colpa spesso è data al mezzo, allo strumento che veicola un messaggio (in tal caso), incapaci come siamo di comprendere che uno strumento non ha alcun potere su di noi se siamo consapevoli del suo utilizzo. Vale per un coltello da cucina, vale per un’arma da fuoco, e vale anche per i videogiochi e per i social network.
Ci sono stati periodi storici nei quali si bruciavano anche libri e giornali (e talvolta anche qualche persona): rei di trasmettere messaggi errati venivano messi al rogo da autorità religiose o politiche che godevano del supporto di una massa di ignoranti che riducendo in cenere quello che vedevano come nemico, potevano tornare a dormire sonni tranquilli (fino all’apparire del nemico successivo). Anche al giorno d’oggi quante volte un nuovo media come il videogioco è finito sulla graticola? E chi si occupa di esports quante volte si è trovato di fronte sguardi sprezzanti di chi ritiene sbagliato fare del gioco elettronico una professione perché “è uno stile di vita sedentario”, “insegnano la violenza”, “ci sono innumerevoli casi di dipendenza”, oppure solo perché “la fuori è più bello”?
Oggi la cronaca ha puntato i riflettori su TikTok. Un social che ha avuto un successo strepitoso, e che si è imposto tra le nuove generazioni soprattutto per il suo essere semplice e immediato. Ma per quanto giocoso sempre di uno strumento di comunicazione si tratta, aperto a tutti, anche a squilibrati, malvagi e pornografi. Occorre capire questo: anche se puoi accedervi dalla tua cameretta i social sono come una piazza, sulla quale puoi incontrare l’edicolante, il parroco o uno spacciatore. Come si insegna l’educazione stradale già nella scuola primaria, forse occorrerebbe iniziare a pensare a qualche ora di educazione/formazione per l’utilizzo di questi nuovi strumenti.
Proprio per queste ragioni proponiamo oggi il contributo di Giovanbattista Trebisacce, Professore di Pedagogia generale Università degli studi di Catania e Socio AIDR, Associazione italian Digital Revolution, che sfiorando il fatto di cronaca, rispettando l’immenso dolore della famiglia, indica alcune buone pratiche per continuare a usare i social, strumenti in fin dei conti anche utili, oltre che divertenti, ma facendolo con attenzione e consapevolezza. Riportando al centro il ruolo degli educatori (genitori in primis), per affrontare la realtà di oggi senza assurde paure.
Ecco dunque il contributo di Trebisacce:
E’ un anno ormai che la pandemia ha stravolto i ritmi e le abitudini della nostra quotidianità e della nostra società. Relazioni umane, lavoro, intrattenimento, di colpo, da un giorno all’altro, hanno “traslocato” sul web. La rete è divenuta un’agorà virtuale. In questa nuova “piazza virtuale” sono stati catapultati non solo gli adulti ma anche i bambini. Dall’inizio della pandemia, infatti, i bambini sono “costretti” dinanzi a telefonino, tablet o computer che sia, per svolgere le attività ordinarie, dalla scuola al catechismo, alla festa di compleanno o di onomastico. In questi mesi anch’essi, al pari degli adulti, hanno “sopportato” mille privazioni e l’unico contatto con amici e parenti è stato virtuale, attraverso, magari il gioco online su una console o su uno smartphone o attraverso i canali social, Tik Tok in maniera particolare.
Non voglio dilungarmi sul triste avvenimento di cronaca, relativo alla morte della piccola Antonella di Palermo: le inchieste avviate dalla Procura ordinaria e da quella dei minori accerteranno se davvero la piccola si sia lasciata attirare in un’assurda sfida su Tik Tok., la Black out challenge. Il Garante della privacy, intanto, ha bloccato Tik Tok.
Per l’ennesima volta, a mio avviso, rischiamo di cadere in una tentazione: illuderci che i commi di legge, le norme, i divieti, facilitino o, ancor più, risolvano la sfida educativa. Semplice, facile, illusorio dire: “troppo pericoloso, chiudiamo tutto”. Noi adulti intanto continuiamo sulla rete a fare quello che vogliamo: ieri tutti selezionatori della nazionale o allenatori, oggi tutti virologi, politici, scienziati, pedagogisti, giocatori d’azzardo. Le norme, le leggi servono agli adulti e in particolare a quegli adulti che producono applicazioni, device e contenuti digitali. Ai bambini servono invece genitori-educatori.
Iniziamo, dunque, a dare il buon esempio. Secondo il Global Digital Report del 2019, gli italiani trascorrono quotidianamente in media un’ora e 46 minuti sui social. Se i figli ci vedono con la testa sempre chinata sullo smartphone, saremo poco credibili quando vorremo limitarne a loro l’uso. Occorrono dei momenti “social free” (l’ora dei pasti, il dopo la cena), da dedicare al rapporto con i figli. Il genitore deve offrire fiducia al figlio; l’educazione è fatta di esempio, di fiducia ma anche di un controllo garbato.
La tecnologia in questo ci aiuta moltissimo: per controllare e/o limitare l’accesso ai siti inadeguati, assai utile può essere il parental control o filtro famiglia, che permette ai genitori di monitorare o bloccare l’accesso a determinate attività da parte del figlio (siti pornografici, immagini violente o pagine con parole chiave), regolare il tempo di utilizzo, ecc. Tanti sistemi, tante opportunità, ma la tecnologia non basta per tenere i figli completamente al sicuro. Bisogna investire sull’EDUCAZIONE. La questione dell’approccio alla tecnologia da parte dei minori è sostanzialmente educativa e non normativa. E la povertà educativa non sempre coincide con quella economica, ma spesso è più diffusa e trasversale. Altro aspetto da considerare è che uno smartphone, inteso come strumento con libero accesso a tutti i contenuti della rete e a tutti i social network, non andrebbe dato prima dei 13 anni. Non è questo un problema di norme (i social sono già vietati dai loro stessi codici ai minori di 13 anni), ma esclusivamente educativo. Educare all’uso della tecnologia significa soprattutto EDUCARE. Ripartire dai fondamenti della genitorialità vuol dire anche riconoscere il proprio errore nel caso, assai frequente, in cui si è consentito ad un figlio piccolo di far uso dello smartphone, “perché lo avevano tutti” o “per farlo stare buono”. Questo significa soggiacere ad una dittatura culturale che andrebbe rovesciata se davvero teniamo a cuore la questione educativa. Non ricordiamoci solo quando si verificano queste tragedie. L’Europa nel 2015 chiese agli Stati membri di (ri)decidere l’età minima per iscriversi ai social, con la possibilità di elevarla a 16 anni. I vari governi avevano 3 anni per decidere, ma da noi nessuno ne ha discusso ed il limite è rimasto quello americano, ovvero i 13 anni. Il processo di digitalizzazione che in questi giorni ha invaso i temi della politica deve necessariamente essere affiancato o, meglio, preceduto da un reale, massiccio e corretto processo formativo.