Fortnite, l’esperto miope e Don Chisciotte

Capita spesso che, di fronte a un problema nuovo e all’assoluta ignoranza di quale possa esserne la soluzione, si provino ad azzardare ipotesi. Così, un po’ a caso, colpendo nel mucchio con la speranza, probabilmente, di beccare, con un po’ di fortuna, la chiave giusta.

È lo stesso che sentiamo spesso fare di fronte al problema della “dipendenza da videogame”. La definizione, un troppo in stile giornaletto, viene di tanto in tanto riesumata da qualche testata o da qualche trasmissione televisiva, buttando lì un po’ superficialmente qualche concetto e poi lasciando che il resta venga da sé. Lanciato l’amo, magari con un titolo acchiappa-clic (clicbaiter, per dirla all’inglese), l’importante è solo nel bailamme social che ne esce in seguito. Perché l’importante, soprattutto per il media mainstream di questi tempi, non è spiegare (operazione dispendiosa e poco remunerativa), ma creare engagement.

Ora, premettiamo che il problema della dipendenza non riguarda, se non in minima parte, il mondo eSports. I pro player, proprio perché responsabili di fronte all’organizzazione di cui fanno parte, prima ancora che nei confronti del proprio sé, imparano ben presto ad autoregolamentarsi, a limitare l’uso di pc, console o dispositivi mobile al minimo indispensabile per l’allenamento quotidiano (anche perché andare oltre potrebbe pure essere controproducente). Laddove non arriva il giocatore comunque ci sono compagni di team, coach, mental coach, pronti a staccare la spina. Gli stessi titoli eSports, poi, sono giochi che spesso non creano dipendenza: richiedono un alto dispendio di energie, sotto forma di concentrazione e stress, soprattutto all’avvicinarsi degli eventi clou, con la preparazione alla prestazione esportiva che si fa maniacale e curata nei minimi dettagli.

Per questo suona strano sentirsi chiedere, quando si parla di eSports, di come si affronta il tema della dipendenza. Qualcuno lo ha chiesto anche a Luca Pagano, intervenuto all’Ice di Londra, la scorsa settimana, e la risposta potete leggerla qui. In sostanza, secondo Pagano, e secondo chiunque fa parte del mondo eSports, il problema è declinabile in autodisciplina (che si può apprendere) e vicinanza e dialogo con gli adulti.

E suona strano anche veder colpevolizzato il mondo videoludico, a priori. Più difficile dire ai genitori “occhio che vostro figlio ha bisogno che gli stiate più vicini”, impossibile obbligarli. E anche se magari sarebbe questa la scelta giusta, si preferisce colpevolizzare i videogiochi. Eppure anche una recente indagine di Nomisma in collaborazione con l’Università di Bologna sul rapporto tra i giovani e il gioco d’azzardo, ha evidenziato come il problema sia tale solo per quei giovani con bassa scolarità, figli di genitori ugualmente con bassa scolarità, che spesso hanno un rapporto molto blando con la famiglia e sono spesso lasciati soli (in compagnia di coetanei) a causa degli impegni degli adulti. Uno dei responsabili dell’indagine ci ha confermato che, pur non avendo ancora effettuato un’analoga indagine sul settore, il problema del videogame è probabilmente molto simile. Il problema dunque, si chiama “gioco d’azzardo”, si chiama “Fortnite”, “Pubg” o “Apex Legends” oppure si chiama scarsa valorizzazione della cultura e solitudine? È un problema di rapporto tra ragazzo e videogame, o proprio il rapporto malato del ragazzo con il videogame nasconde un problema nel relazionarsi con gli adulti di riferimento?

Chissà se presenterà in questi termini il professionista (probabilmente lo psicologo di turno) che parlerà ai genitori nella scuola di Carrè, a Vicenza, da dove la preside, la scorsa settimana, ha lanciato un appello ai genitori per l’eccessivo uso di Fortnite da parte dei figli. Esattamente come ha fatto anche un recente servizio di Striscia La Notizia, il focus viene troppo spesso incentrato sull’attrattiva di questi videogame, e poi a ruota sulle scene violente dei videogame (come se la tv non ne presentasse di analoghe da almeno 50 anni) che al contrario potrebbero essere utilizzati come “armi educative” per sublimare il lato violento di tanta gioventù. Ma invitare a una revisione del proprio ruolo genitori, insegnanti e i vari adulti che vivono a contatto con i ragazzi quello no, quello è decisamente troppo difficile. Meglio dire che il problema è un videogame, tanto il videogame non si offende e non replica, e qualcuno comunque avrà dato e avuto l’impressione di aver fatto qualcosa, semplicemente abbattendo, come Don Chisciotte, l’ennesimo mulino a vento.

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