Gli esports in pasto alle Iene

Bene, ho appena finito di vedere il servizio delle Iene sugli esports e non intendo guardarlo nuovamente. E non perché non abbia voglia di approfondire quello che la redazione ha confezionato né tantomeno per un sentimento ostile nei confronti del lavoro realizzato da Nicolò De Devitiis durante la scorsa Milan Games Week. Non ho intenzione di vederlo di nuovo semplicemente perché è quello che ha fatto (e probabilmente farà) il pubblico ieri sera durante la trasmissione televisiva. Si è trovato di fronte ad un servizio come un altro, non dedicato ai soliti truffatori o molestatori seriali, ma al mondo dei videogiochi competitivi. Voglio immedesimarmi nello spettatore medio, essere inserito nelle percentuali di share, portandomi però dietro un bagaglio diverso dal pubblico generalista, del quale non posso ovviamente fare a meno.

Come di consueto accade in molti dei servizi della trasmissione di Italia Uno, anche in questo caso si resta – volutamente, temo – superficiali, puntando molto spesso su numeri e cifre, senza mai citare le fonti, cosa che, a mio avviso, è fondamentale quando si realizza un reportage giornalistico. Ma questo, ahimé, è un virus che da tempo ormai si è impossessato non solo delle Iene ma di molti programmi di pseudo-approfondimento.

Quello su cui gli autori hanno voluto spingere è sicuramente l’aspetto economico dei videogiochi competitivi, su quanto questo o quell’altro player possono guadagnare al mese o all’anno. Si parla di stipendi, sponsorizzazioni e montepremi, sottolineando a più riprese gli zeri che li compongono. Ma, onestamente, non ho sentito parlare di competizioni, tornei, gare, se non quando viene mostrata la finale di Asphalt 9 disputata proprio alla MGW.

Questa volta, però, a dire la loro sono stati anche i principali attori e protagonisti del mondo esportivo, presidenti di team professionistici, organizzatori e gli stessi pro-player. Anche in questo caso si è trattato di una pennellata, un tratteggio di un universo vasto e complesso, spesso frammentato e discusso. Ognuno ha portato il proprio esempio, ha parlato della propria esperienza, ha tentato di rispondere alle domande, spesso sarcastiche dell’intervistatore.

Inevitabili le citazioni di cosplayer e streamer, mondi che con l’esport non c’entrano nulla, o quasi. Da una parte c’è la celebrazione della propria passione attraverso il travestimento dedicato ai personaggi dei videogiochi, dall’altra la confusione tra intrattenitore e giocatore professionista. Non sempre le due figure coincidono, è bene ribadirlo.

Spesso sono tirati in ballo i bambini, sia come spettatori sia come pro-player. Quando l’intervistatore chiede loro se Cicciogamer (definito con un discutibilissimo ‘il capo dei capi’) sia più interessante di Cristiano Ronaldo e Totti la loro risposta è affermativa. Per il pubblico generalista questa può apparire come notizia sconcertante, quando, invece, è piuttosto noto che la cosa che spaventa più di tutte il mondo dell’intrattenimento, compreso il Dio calcio, sono proprio i videogiochi.

Infine, un accenno all’intervista a Jordan Herzog, talento statunitense di Fortnite che a 12 anni ha deciso di lasciare la scuola, e non gli studi (frequenta lezioni online) come sostenuto nel servizio. Dopo la domanda, telefonatissima, su quanto guadagna l’anno, arriva la chiusura perfetta per il servizio. “Quando Colombo ha scoperto l’America?”, chiede De Devitiis. Il ragazzino spara un 1800 e qualcosa agevolando la chiusura del sipario. Ora, non me ne abbiate, ma credo che neanche mio figlio (coetaneo di Jordan, ma meno talentuoso su Fortnite, lo ammetto) saprebbe la risposta a questa domanda. Anzi no, considerando che conosce perfettamente “Non ci resta che piangere”. Mi scuseranno Roberto Benigni e Massimo Troisi se ho rubato il loro titolo per fare anch’io una chiusura ad effetto.

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