Un’indagine alla Camera ha ricostruito la qualificazione giuridica dei rapporti tra creatori, anche gamer, e piattaforme, lasciando spazio a un codice Ateco specifico per la categoria.
La Commissione XI – Lavoro pubblico e privato della Camera dei deputati approva il documento conclusivo dell’indagine conoscitiva sui lavoratori che svolgono attività di creazione di contenuti digitali. Nelle 31 pagine, redatte dopo aver analizzato il settore della cosiddetta Creator economy negli scorsi mesi, si è voluto “ricostruire la qualificazione giuridica del rapporto di lavoro intercorrente tra creatori e piattaforme, al fine di individuare possibili interventi volti ad assicurare ai creatori adeguate forme di tutela”.
“Sotto il profilo sostanziale”, spiegava la parlamentare pentastellata Valentina Barzotti, membro della commissione XI nel giustificare l’avvio dell’indagine, “questi soggetti (i content creator, ndr) risultano essere in una posizione di dipendenza funzionale ed economica rispetto alla piattaforma da cui trasmettono, senza però disporre di margini di contrattazione sulle modifiche dell’algoritmo che determina la diffusione dei loro contenuti e senza “scudi” ai rischi connessi alle segnalazioni degli hater”.
L’audience? Il 73 percento degli italiani
Una delle premesse da cui è partita l’indagine è costituita da un dato riportato dalla società Audiweb, che ha rilevato come, “nel corso dell’anno 2020, la digital audience totale su base mensile ha raggiunto il 73 percento della popolazione dai 2 anni in su, con una media mensile di 43,5 milioni di utenti unici e una crescita del 4,6 per cento rispetto alla media mensile del 2019. La fruizione di internet nel giorno medio del 2020 ha visto un incremento generale del 3,3 per cento rispetto al giorno medio del 2019, con un maggiore uso del computer rispetto agli altri strumenti, con una dinamica che la società di rilevazione riconduce essenzialmente agli effetti della pandemia sulle abitudini e sugli stili di vita delle persone”.
Questo ampio accesso della popolazione a reti di comunicazione e di connessione digitali, riporta ancora il documento nella sua parte iniziale, “si traduce nella presenza di operatori economici attivi a livello globale che operano attraverso piattaforme che mettono a disposizione contenuti prodotti da soggetti che accedono alle piattaforme stesse”.
Ecco l’elenco delle persone ascoltate dalla commissione XI
Per capirne di più la commissione ha incontrato “operatori del settore, con il coinvolgimento sia dei creatori di contenuti digitali sia di rappresentanti di alcune delle piattaforme più rilevanti, delle istituzioni con più diretta competenza in materia (Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Agenzia delle entrate, Istituto nazionale di statistica e Istituto nazionale della previdenza sociale), di esperti della materia e operatori del diritto”. Le audizioni, realizzare negli scorsi mesi, hanno portato davanti alla commissione Annarosa Pesole, componente del gruppo di studio sulla governance algoritmica e sul futuro del lavoro, istituito presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Jacopo Ierussi, presidente dell’Associazione italiana influencer – Assoinfluencer, Gian Paolo Oneto, direttore della direzione centrale per gli studi e la valorizzazione tematica nell’area delle statistiche economiche dell’Istat, gli avvocati Alberta Antonucci, Tatiana Biagioni e Aurora Notarianni, Mariella Magnani, ordinaria di diritto del lavoro presso l’Università degli studi di Pavia, Patrizia Claps, Capo Settore Consulenza della Direzione centrale persone fisiche, lavoratori autonomi ed enti non commerciali dell’Agenzia delle entrate, Pasquale Tridico, presidente dell’Inpd, Adriano Bizzocco, Public Affairs Manager di Italian Interactive & Digital Entertainment Association (Iidea), Norma Cerletti, operatrice del settore, Cosmano Lombardo, ideatore del Web Marketing Festival (WMF), Enrico Bellini, rappresentante di Google, Francesca Mortari e Marco Pancini, rappresentanti di YouTube, Luca La Mesa, esperto di social media, Michele Squeglia, professore associato di diritto del lavoro presso l’Università degli studi di Milano, Karim Khaldi e Roberto Prampolini, operatori del settore, Ivan Grieco, Andrea Panciroli e Sara Stefanizzi, operatori del settore, Davide Bennato, professore associato di sociologia dei processi culturali e comunicativi presso l’Università degli studi di Catania e gli avvocati Angelo Greco e Marco Scialdone.
L’importanza degli esports
Una delle parti più dettagliate dell’indagine, che riportiamo integralmente in calce, è dedicata all’utilizzo dei videogame, in particolare per quanto riguarda il comparto degli esports. Spiega infatti il documento che “all’interno della categoria generale dei creatori di contenuti, assolutamente peculiare è la figura dei gamer che partecipano a competizioni di E-sports, intendendosi come tali le competizioni svolte anche sotto forma di leghe e tornei, in cui giocatori singoli o squadre si contrappongono giocando con videogiochi, con la partecipazione di un pubblico di altri utenti, al fine di ottenere premi o per puro intrattenimento”.
In un quadro più in generale, comunque, “l’indagine si è posta l’obiettivo di valutare le caratteristiche della creator economy, sviluppatasi all’interno dei mercati creati dalle piattaforme digitali e, in particolare, da quelle che gestiscono reti di comunicazione sociale. Si tratta di un ecosistema nel quale sono presenti creatori di contenuti, creatori di comunità, che non solo investono nella loro passione, ma si costruiscono un proprio seguito e, alla fine, giungono a valorizzare economicamente la propria attività”.
La situazione italiana
L’attualità dei problemi posti dall’indagine e di quelli emersi nel corso delle audizioni svolte è confermata dalla “particolare attenzione che si sta prestando nell’ambito dell’Unione europea al settore dell’economia digitale, con l’adozione di importanti interventi normativi, a partire dal Regolamento (UE) 2019/1150, entrato in vigore intorno alla metà del 2020, che ha inteso assicurare una protezione uniforme degli utenti commerciali delle piattaforme elettroniche. A fronte di un quadro normativo che, specialmente a livello continentale, è in continua evoluzione”, continua il documento, “nel nostro Paese manca ancora una soddisfacente ricostruzione del fenomeno della creazione di contenuti digitali, basata su dati amministrativi o statistici ufficiali. In parte, si tratta di una difficoltà fisiologica, in quanto la creazione e la condivisione di contenuti online è un fenomeno in continua diffusione e crescita e, quindi, mal si presta ad essere cristallizzato in forme e dati prestabiliti”.
Resta spazio per la creazione di un codice Ateco specifico per queste professioni, come emerso nel corso dell’indagine. “Pur prendendo atto delle osservazioni formulate nel corso della propria audizione dai rappresentanti dell’Istituto nazionale di statistica, non sembra essere trascurabile la circostanza che in Italia i codici Ateco coprono tutte le forme di attività economiche comprese le attività dei servizi, come quelle legali o quelle consulenziali e non sembrano, pertanto, esservi motivi ostativi per introdurre un codice di natura neutra cui poter fare riferimento”.
Il perché di un inquadramento difficile
Si è constatato che “il rapporto tra piattaforma digitale e creatori è difficilmente sussumibile nella tradizionale dicotomia tra lavoro subordinato e lavoro autonomo: il lavoratore nella creator economy non è solo il prestatore di un’opera intellettuale o di un servizio di creazione, ma è al tempo stesso un utilizzatore della piattaforma, ancorché lo faccia (anche) a scopo lavorativo. In questo senso, lo statuto di tutele da applicare ai creatori dei contenuti dovrà necessariamente essere individuato traendo i propri elementi, in parte, dalla disciplina del lavoro autonomo e, in particolare, da quella del lavoro autonomo di seconda generazione, in parte, dalla normativa di tutela dei consumatori e degli utenti, e, in parte, da forme di protezione analoghe a quelle riconosciute ai lavoratori dipendenti”.
Una questione che, tuttavia, non può essere affrontata a livello locale, ossia di singolo Paese. “In ogni caso, innanzi a imprese che operano su scale internazionale, la risposta non potrebbe essere locale, bensì di coordinamento sovranazionale dei gruppi di lavoratori interessati attraverso il coinvolgimento degli organismi di rappresentanza già esistenti a livello transnazionale come i comitati aziendali europei e gli organismi di rappresentanza delle società europee”.
La rapidità della creator economy
A fronte della rapidità con cui si sta sviluppando la creator economy in tutte le sue diverse forme “è quanto mai opportuno che si realizzi un’opera di rielaborazione in un unico compendio normativo delle norme che regolano i rapporti che ne costituiscono la base, senza volerne cristallizzare la disciplina in modo rigido con la riconduzione a forme di lavoro tradizionali. In questo modo, raccogliendo anche i principi e le disposizioni elaborati nell’ambito dell’Unione europea, si potrà costituire uno statuto di tutele per questi lavoratori del web che tenga in considerazione tanto l’elemento della dipendenza funzionale dei lavoratori dalle piattaforme, quanto il significativo squilibrio che caratterizza i rapporti che vengo costituiti. A tale fine, potrebbe essere opportuna la costituzione di un tavolo di esperti per approfondire tali problematiche e per proporre soluzioni normative da inserire nello statuto del lavoro autonomo”.
Riportiamo di seguito, integralmente, la parte dell’indagine relativa agli esports:
“All’interno della categoria generale dei creatori di contenuti, assolutamente peculiare è la
figura dei gamer che partecipano a competizioni di E-sports, intendendosi come tali le
competizioni svolte anche sotto forma di leghe e tornei, in cui giocatori singoli o squadre si
contrappongono giocando con videogiochi, con la partecipazione di un pubblico di altri utenti, al fine di ottenere premi o per puro intrattenimento. Si tratta, infatti, di un settore che si è sviluppato non tanto nell’ambito di una evoluzione della cosiddetta sharing economy, come avvenuto, ad esempio, per i creatori di contenuti sulla piattaforma YouTube, quanto piuttosto nel quadro dell’evoluzione del sistema dell’industria dell’intrattenimento.
“L’attenzione della dottrina e degli analisti sul fenomeno è particolarmente accentuata, considerando la grande e crescente diffusione dei videogiochi e dei suoi spettatori. Secondo quanto riportato nel documento di posizione proposto dall’associazione di categoria dell’industria dei videogiochi in Italia15, una società di analisi del settore ha stimato che i ricavi diretti del mercato E-sports a livello globale, intesi come ricavi generati dalle competizioni o dalle squadre di E-sports, sotto forma di sponsorizzazioni, diritti media o biglietteria e merchandising, sono stati di 947,1 milioni di euro nel 2020, mentre i ricavi previsti per il 2021 sono di 1,08 miliardi di euro. La crescita del peso economico del settore, sempre secondo lo stesso rapporto, è direttamente proporzionale al progressivo incremento del pubblico, che a livello globale avrebbe portato nel 2020 alla presenza di 215 milioni di ‘enthusiasts’ (persone che seguono eventi E-sports più volte al mese).
“Per quanto riguarda il nostro Paese, i dati raccolti dalla stessa Associazione di categoria16 indicano che i soggetti che dichiarano di seguire giornalmente un evento sportivo digitale (cosiddetti avid fans) sono 475.000, con una lieve crescita rispetto alla precedente rilevazione, mentre i soggetti che dichiarano di seguire più volte a settimana eventi sportivi digitali sono 1 milione e 620 mila, con una crescita del 15 per cento rispetto alla rilevazione del mese di luglio 2020. I gamer presentano problematiche ed esigenze specifiche, legate, ad esempio, alla assimilabilità degli sport e dei giochi elettronici agli sport tradizionali,17 ma per molte altre caratteristiche affrontano situazioni comuni agli altri soggetti che creano contenuti da rendere disponibili attraverso le reti digitali: guardando, infatti, alle modalità di svolgimento dell’attività, i giocatori sono assimilabili ai creatori di altri contenuti, distinguendosi solo per la particolarità del contenuto creato e reso disponibile.
“L’Indagine non ha affrontato specificamente le peculiarità delle attività svolte da questa categoria di lavoratori, che – sul piano dei rapporti di lavoro – è resa più complessa dalla presenza di un ulteriore livello di intermediazione delle attività, rappresentato dalle squadre alle quali possono appartenere i singoli giocatori e che possono regolare i propri rapporti con i giocatori stessi con contratti che possono definire eventuali compensi e ulteriori obblighi tra le parti. Su un piano più generale, è indubbio che i creatori di contenuti siano una delle componenti della più vasta galassia dei lavoratori delle piattaforme digitali. Come emerso in modo chiaro dall’Indagine, tuttavia, la presenza di una categoria più ampia alla quale ricondurre forme di lavoro anche molto diverse tra loro non deve necessariamente comportare l’esigenza di individuare soluzioni giuridiche unificanti per una platea di lavoratori spesso accomunata solo dal fatto che le proprie prestazioni lavorative o professionali sono intermediate da una piattaforma digitale.
“I rappresentanti dell’Istat, nel corso della propria audizione nell’ambito dell’Indagine,
hanno puntualmente evidenziato come le piattaforme digitali presentino caratteristiche comuni ben identificabili sul piano tecnico e strutturale, ma si rivelino estremamente eterogenee quando si passino ad esaminare i modelli di business e le prestazioni intermediate. In effetti, le piattaforme digitali sono organizzate per intermediare sostanzialmente ogni prestazione di servizio, tecnica o professionale, erogabile tanto in presenza tanto a distanza, attraverso la rete internet, come efficacemente schematizzato nella tabella riportata di seguito sempre tratta dalla documentazione di Istat”.