Perché l’esport ha bisogno di essere uno sport?

Dall’11 al 13 ottobre 2019 si è tenuto a Trento il Festival dello Sport firmato dalla Gazzetta dello Sport. Ospiti illustri del mondo sportivo hanno illuminato la cittadina alto-atesina per una tre giorni di incontri, confronti e discussioni sui temi più svariati legati in modo diretto o indiretto alle tematiche del mondo dello sport. Tra gli argomenti trattati anche gli sport elettronici, comunemente conosciuti come esports. Oltre ai numerosi showmatch proposti da ProGaming Italia, licenziataria del marchio ESL nel nostro paese, è stato interessante un panel dedicato alla regolamentazione degli esports, una tematica sempre più sensibile a livello internazionale ma che in Italia fa ancora fatica a svilupparsi. Diverse correnti di pensiero, molti lati bui e incerti: è questo il panorama attualmente esistente sulle regole dei videogiochi competitivi che vivono in un limbo, in uno stato delle cose non disciplinato da alcuna legge dedicata.

Da questa mancanza, allora, nasce probabilmente l’esigenza di utilizzare le regolamentazioni già esistenti per gli sport tradizionali anche negli esports in modo da mutuarle, per analogia o altri strumenti giuridici, nell’ambito desiderato. Tra i protagonisti intervenuti al panel, a cui hanno partecipato Thalita Malagò di AESVI, Ian Smith di ESIC e Edoardo Revello di SportsGeneration, era presente anche Jacopo Ierussi, avvocato romano e responsabile affari legali di GEC, il settore sportivo di ASI che dal 2014 si occupa di regolamentare gli esports in Italia e di contribuire alla sua diffusione, a cui abbiamo posto delle domande in merito.

Prima di tutto cerchiamo di chiarire un concetto semplice: gli esports sono uno sport?

Se si intende “sport” nel senso tradizionale del termine, allora, a mio personale avviso, la risposta è no. D’altro canto, neanche il tiro al piattello, attualmente disciplina olimpionica, rientrerebbe oggettivamente in quel concetto. Bisogna ricordare che il termine sport discende da quello francese “desport” tradotto in italiano “diporto” che non stava a significare tanto l’attività agonistica svolta dagli atleti quanto il divertimento che traevano gli spettatori nell’assistere alle gare. Non è un caso che il CONI abbia riconosciuto i cosiddetti sport della mente a partire sin dagli anni venti, tant’è che oggi esiste la Federazione Scacchistica Italiana. L’idea di sport come solo “sudore” è ormai datata.

In che termini il riconoscimento degli esports come disciplina sportiva associata può contribuire alla loro regolamentazione? Magari anche in ambito di agevolazioni fiscali.

Sfortunatamente è essenziale per l’effettiva crescita dell’ecosistema esportivo italiano. Basti pensare che comporterebbe, d’obbligo, l’inclusione degli sport elettronici nella lista delle discipline ammissibili contenuta nella Delibera n. 1566/2016 del Consiglio Nazionale del CONI, con conseguente accesso  per le associazioni sportive dilettantistiche che li praticano alle molteplici agevolazioni fiscali previste dalla legge. Senza contare che, a quel punto, la nascita di una Federazione sarebbe inevitabile e quest’ultima potrebbe regolamentare ufficialmente gli aspetti più delicati degli esport quali il possibile abuso di sostanze dopanti da parte degli atleti.

Quanto un organismo terzo sembra essere necessario per compiere un passo avanti?

Dipende verso dove è diretto quel passo. L’Italia è piena di talenti il problema è che se lo Stato e il CONI quale suo tramite non investiranno a breve in questo settore, allora, quei talenti cercheranno e porteranno fortuna altrove. I vivai si svilupperanno a beneficio di Paesi stranieri che faranno gareggiare i nostri player in competizioni di primo tiro quali ospiti o padroni di casa laddove reclutati all’estero. L’alternativa è quella di coltivare una cultura esportiva nazionale divulgata da un ente quale una Federazione sportiva.

I publisher, in tutto questo, hanno le regole del gioco nelle loro mani. Perché, in realtà, sarebbe conveniente anche per loro?

I publisher temono di perdere il controllo sul loro prodotto, ma un’autorità garante che vigili sulle manifestazioni esportive assicurerebbe a queste multinazionali di essere manlevate da ogni responsabilità in situazioni spiacevoli quali casi riscontrati di doping, match fixing, cheating e molto altro ancora. Non si discute soltanto di fare salvi degli interessi economici, ma di preservare la credibilità dei brand. Senza contare i molteplici benefici derivanti dalle già citate agevolazioni fiscali. 

L’unico svantaggio potrebbe essere il dover cedere un frammento della propria sovranità ad una futura Federazione e ad ogni ente ad essa sovraordinato, ma la paura riguardo ad un simile scenario è infondata. I publisher potrebbero tornare sui propri passi in qualsiasi momento e dedicarsi esclusivamente all’organizzazione di concorsi a premi o eventi ‘for fun’ destinati a scopi puramente promozionali. In fondo è loro la proprietà intellettuale del singolo titolo videoludico e niente può cambiare questo dato incontrovertibile. 

Non sono ancora all’ordine del giorno ma accade spesso di sentire problematiche relative al match fixing, ovvero le combine delle partite, scommesse illegali, doping. In che modo si potrebbe contribuire a contrastare questi fenomeni? 

Se venisse alla luce una Federazione esportiva questa potrebbe ricorrere a numerosi strumenti con finalità deterrenti tra cui, a titolo esemplificativo, la NADO Italia ovvero l’organizzazione nazionale antidoping. Per un privato questi meccanismi di controllo sono un costo che, con la presenza di ente pubblico di controllo, verrebbe esternalizzato ed azzerato. Come logico, se aumentano gli occhi e questi sono ben allenati allora il rischio di tralasciare qualche dettaglio diminuisce drasticamente.

Un altro aspetto delicato è quello delle lootbox, da molti paragonate al gioco d’azzardo. Ma sono davvero la stessa cosa?

A mio avviso non sono assimilabili al gioco d’azzardo. Si tratta pur sempre di acquistare un prodotto commerciale che quando fruito genera un valore variabile che non è mai pari a zero a differenza di quanto avviene, ad esempio, quando giochi al lotto ed i tuoi numeri non escono; lì i soldi sono persi e punto. Non dovrebbero però trovare spazio negli sport elettronici perché, usando una metafora già spesa a Trento, è come se per giocare a scacchi si dovesse per forza  sostenere un costo ulteriore, ripetuto e irrimediabilmente condizionato dall’alea per poter entrare in posseso dei singoli pezzi della scacchiera. Alla fine vincerà chi ha più risorse finanziarie e, quindi, più cavalli ed alfieri da muovere contro l’avversario mentre lo sport e qualsiasi attività che condivida con esso valori e connotazioni è prima di tutto uguaglianza. 

In che modo la questione delle lootbox si lega alla regolamentazione del settore?

Sono dell’opinione che una regolamentazione ad hoc dovrebbe bandire dalle competizioni esportive tutte quelle modalità di gioco che prevedono il ricorso alle lootbox, tracciando quella giusta linea di confine che dovrebbe separare l’aspetto competitivo da quello commerciale nel settore videoludico.

In Cina le lootbox non sono state vietate ma è stato obbligatoriamente richiesto ai publisher di pubblicare, al fine della massima trasparenza, le percentuali di trovare un determinato contenuto in base al suo valore. Potrebbe essere un approccio da utilizzare anche in Italia?

Sì, potrebbe essere un’ottima soluzione puntare sulla trasparenza del prodotto per stroncare tutte le critiche sul nascere. Un consumatore informato non può addebitare alcuna colpa all’azienda che gli ha venduto un bene e/o servizio se questi lo ha consapevolmente acquistato. Certo resta l’incognita dei minori, ma qui subentra l’importanza svolta dal ruolo dei genitori.

Ultimo aspetto ma non meno importante. Come si potrebbero tutelare i giocatori, in questo momento alla mercé di chiunque? Sarebbe possibile parlare di un sindacato anche in Italia come già accaduto negli Stati Uniti con la nascita di diverse associazioni di player professionisti?

Lo scenario competitivo italiano è ancora acerbo e attualmente non necessita di una fase di sindacalizzazione. Questo non significa che non si debba guardare al futuro. A mio avviso, l’importante è che, quando ve ne sarà bisogno, la volontà di promuovere certi interessi meritevoli di tutela nasca dalla base, dagli stessi player e non dai soliti burocrati.

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