Mentre l’esports continua a crescere, un tweet degli ultimi giorni ha aperto diversi spunti di riflessione sulla carriera dei player professionisti, spesso concentrata in pochi anni. Giusto, dunque, puntare su ciò che gravita intorno all’industria dei videogiochi in generale?
Il social media manager di Cloud9, Mateus Portilho, ha pubblicato un tweet che ha aperto un lungo dibattito tra addetti ai lavori e appassionati. Una sorta di presa di posizione su quanto i giocatori professionisti, in campo esports, dovrebbero lavorare sulla loro presenza sui social media e sulla creazione di contenuti. Il post, che è stato poi cooptato e amplificato da Jake Lucky, ha fatto sì che molti professionisti esprimessero le proprie opinioni sulla creazione di contenuti durante le competizioni.
Take:
Pro Players shouldn't be paid loads of money if they don't put effort on taking care about their image. Playing the game, practicing, and winning are not the only job of a Pro Player.
Pros also have to work on their Social numbers, personal brand, and content creation.
— C9 porti (@portilho) March 9, 2023
Fazioni contrastanti
Le fazioni, ovviamente, sono due. Chi giudica i social fondamentali anche nella firma di un semplice contratto da professionista e chi pensa solo ed esclusivamente alla parte legata alle competizioni. Phillip “ImperialHal” Dosen dei Tsm, ad esempio, si è detto d’accordo con l’opinione di Portilho. Una nuda e cruda realtà per il player di Apex Legends dell’organizzazione nordamericana, che spicca non solo per le vittorie sul campo di battaglia, ma soprattutto per il ruolo di creatore di contenuti. Il suo canale Twitch, attualmente, conta quasi 2 milioni di follower. Numeri pazzeschi, che vanno in netta controtendenza rispetto a quello che succede abitualmente nell’industria.
Esports e social sulla stessa lunghezza d’onda
Del resto, tanti player professionisti, soprattutto ai livelli più alti, non si preoccupano abbastanza di creare contenuti per le piattaforme come Twitch e YouTube. I social, però, giocano un ruolo fondamentale nella firma di un contratto con un’organizzazione. Puntare sul self-branding, per alcuni, diventa fondamentale. “Un professionista con 10.000 follower – le parole di Robin “Ropz” Kool, player di Csgo in forza ai FaZe – non sarà pagato come uno con 1 milione di follower, se hanno lo stesso livello di abilità. Questo fa parte delle trattative”. Un discorso lineare e gli esempi in chiave esports, anche in Italia, non mancano. La carriera di un giocatore professionista, poi, ha una durata limitata rispetto a quella di uno sportivo. Investire sul proprio brand può essere una sorta di paracadute per il futuro, oltre che un segnale di lungimiranza.
Il rovescio della medaglia
C’è, in ogni caso, un rovescio della medaglia. I player professionisti fuori dalle competizioni passano ore e ore ad allenarsi. Staccare la spina per dedicarsi ad altro, una volta finiti gli impegni legati all’epsorts, può essere un modo per mantenersi in equilibrio. Il riferimento, ovviamente, è alla salute mentale, altro tema ricorrente e molto importante nel mondo dei videogiochi competitivi. Una verità assoluta, quindi, non esiste e forse mai esisterà. Troppi i fattori che possono spostare l’ago della bilancia sia in un senso che nell’altro.