“A volte ritornano” è il titolo di un libro (del 1978) di Stephen King, dal quale nel 1991 Tom McLoughlin ha tratto un altrettanto famoso film horror. Vado a scomodare il titolo di un film di quasi 30 anni fa perché nel linguaggio comune il suo titolo è diventato una locuzione utilizzata spesso per sottolineare orride figure di qualche personaggio che, per un vezzo, per un look o per un’uscita poco elegante, si mette talmente in ridicolo da suscitare ribrezzo.
Ecco, la stessa sensazione che un appassionato di videogame penso abbia provato qualche giorno fa leggendo il quotidiano Repubblica, e imbattendosi nel titolo riportato qui sotto.
Il fatto di cronaca, lo ricordo in breve, è legato alla follia di Brenton Tarrant, il 28enne estremista cristiano (?) australiano che venerdì scorso ha compiuto una strage entrando in due moschee nelle quali dei musulmani erano riuniti in preghiera e sparando all’impazzata. Mentre uccideva 49 persone e ne feriva molte altre il folle ha ripreso tutto con una videocamera indossabile postando il video su Facebook.
Le immagini, effettivamente, ricordano la visualizzazione tipica degli sparatutto in prima persona più in voga, ma siamo sicuri che sia così corretta come analogia? Perché tirare in ballo, in una questione del genere, un videogame? Il titolo di Repubblica, peraltro esageratamente lungo, fa quello che già altre volte è stato fatto in casi analoghi dai media mainstream, quasi a sottolineare un sottile legame tra la follia di chi usa un’arma vera contro persone innocenti e il divertimento di chi usa una manciata di pixel per “colpire” un’altra manciata di pixel.
Giustamente attorno a questo titolo infelice è nato un dibattito sui social, e non solo in Italia, a dimostrazione di quanto sia sentita la questione, di quanto crei fastidio, ma anche di quanto lavoro ci sia ancora da fare a livello culturale.
Come giustamente ha fatto notare sul suo profilo Twitter il caster Simone “Akira” Trimarchi, il titolo sottolinea che il pazzo “ha sparato come in un videogame” ma “le nostre pallottole virtuali non hanno mai ammazzato nessuno: ha sparato come in una guerra!!!”. Semmai si è ripreso come in un videogame, ha usato, per mettere in mostra le sue azioni, la visualizzazione in prima persona spesso usata nei videogame, ma ha usato un’arma vera. Sono cose ben diverse.
Insomma, sarebbe ora che alcuni giornalisti si dessero una svegliata. Basterebbe informarsi, cosa che un giornalista dovrebbe saper fare. Ci sono studi che smentiscono l’esistenza di legami tra l’attività videoludica e la violenza. Uno studio recente, effettuato dall’Università inglese di Oxford, ha verificato (intervistando ragazzi e adulti che con loro convivono) che non esiste alcun legame tra la violenza “giocata” e quella messa in atto nel mondo reale. Lo scorso anno poi, la Commissione Federale per la Sicurezza Scolastica del governo degli Stati Uniti ha rinvenuto contenuti violenti in circa il 68% dei videogame, contro il 90% dei film proposti al cinema e in tv, ai quali i ragazzi sono comunque esposti.
Perché non dire allora che il killer ha sparato come un atleta di tiro a segno (che peraltro è una disciplina olimpica?). Beh, tirare in ballo un videogame è “un’analogia figa”, che mostra come il titolista sia “al passo coi tempi”, per di più consente di avere un bersaglio facile (tanto per continuare col tema) che nessuno, a parte pochi appassionati, si disturberebbe a difendere, visto che una vera e propria federazione non c’è ancora. Che poi si dimostri, facendo un titolo del genere, anche di avere poca cultura, questo non sembra interessare al momento ai media mainstream.